Approfondimenti » 15/06/2013
Il perchè di una visita al MAP. Di Guido Giampietro
Cos’è un museo? Un luogo dove ˗ come dice André Malraux ˗ più che immagazzinare opere fruite, si ha cura di metterle a contatto le une con le altre e, in questo contatto, farle vivere all’infinito.
L’occhio ascolta. I muri parlano… E se i muri sono quelli della chiesa di San Michele Arcangelo, inserita nel complesso monumentale delle ex Scuole Pie di via Tarantini, ad accogliere i visitatori del MAP è una musica che si leva alta nel cielo.
Lo sposalizio tra questa (ex) chiesa tanto cara ai brindisini e il Museo è quanto di meglio potessimo aspettarci in un momento contraddistinto, più che dalla crisi economica, dal sovvertimento di valori consolidati nel tempo. Trattandosi infatti di una chiesa sconsacrata ha corso seriamente il rischio d’essere riconvertita in un ufficio, un’enoteca, un atelier, una pizzeria o addirittura, com’è avvenuto per quella della Madonna della Neve a Luisago (Como) in un’autofficina…
E invece, grazie alla formula del comodato d’uso disciplinato da un protocollo d’intesa tra la Fondazione Biblioteca “De Leo” – Arcidiocesi di Brindisi e la CRACC (Conservazione e Ricerca Arti e Culture Contemporanee) srl spin off dell’Università del Salento, gli ambienti della chiesa sono divenuti spazi per le attività espositive del progetto MAP, il Museo Mediterraneo dell’Arte Presente.
Una destinazione ottimale visto che la chiesa, voluta dall’arcivescovo di Brindisi - Mons. D. Francesco de Estrada, nel 1664, grazie alla Fondazione di un Collegio, consentì l’ingresso in città dei chierici regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, detti comunemente scolopi. Il cui fine primo fu quello di riuscire a colmare le lacune di un’educazione pubblica che nella Brindisi del XVII secolo appariva quasi del tutto inesistente.
Va detto subito che l’unico neo di questo contenitore-bomboniera è, a mio avviso, la copertura, con tramezzature in legno, delle cappelle laterali allo scopo di adattarle, seppure temporaneamente, a depositi librari. Anche nella consapevolezza che gli altari non potranno più tornare al loro posto, c’è da augurarsi che il Museo possa al più presto godere di spazi espositivi ancora più ampi.
Il “pretesto” che mi ha condotto al MAP è stata la notizia della recente acquisizione della “Testa di bimbo” dello scultore brindisino Edgardo Simone, grazie alla donazione fattane dalla compianta Flora Dionisi e da suo nipote Francesco Simone che in tale modo hanno reso possibile perpetuare il ricordo di un artista cui la città ˗ non dimentichiamolo! ˗ deve il Monumento ai Caduti.
Per un momento la ricerca del bronzetto mi ha fatto pensare a un surreale gioco di nascondino (voluto dall’allestitore o solo casuale?) tra il visitatore e questo bimbo di cui nulla si conosce. Poi l’incontro ˗ questo sì, casuale ˗ con il prof. Massimo Guastella che del Museo è la mente e l’anima. Una guida preziosa che, oltre alle notizie “tecniche”, è in grado di trasmettere all’interlocutore il calore dei contatti che intrattiene con gli artisti espositori.
È per questo motivo che, nell’illustrazione “ad personam” che me ne dà il professore, l’opera dell’albanese Alfred “Milot” Mirashi ˗ “Mediterranean passepartout” ˗ riesce a travalicare lo stesso simbolismo della chiave rossa e diventare modello per una dimensione monumentale: un grande ponte con il quale l’artista intende rendere omaggio alla città e ai brindisini che accolsero il popolo albanese nel marzo del 1991. Un atto che il Mirashi ˗ senza alcuna polemica nei riguardi di chi in Italia, a suo tempo, si è opposto a tale riconoscimento ˗ ritiene dovuto.
Così come l’interesse dei ragazzi d’una scolaresca nel corso del girovagare tra le opere in mostra diventa, per il Guastella, occasione di riflessione sulla curiosità in genere che anima i giovani al cospetto dei lavori più “arditi”. Infatti, nella “Profezia” di Anna Maria Di Terlizzi, il mistero della pesante catena sollevata da una minuta colomba si dipana solo allorché i giovani visitatori, moderni San Tommaso, azzardano di nascosto una toccatina alle maglie…
Per non parlare del progetto di coinvolgere attivamente i non vedenti ˗ grazie a una mirata applicazione del braille ˗ ad appropriarsi delle opere artistiche e a valutarne soggettivamente, con la “carezza” delle forme, la bellezza e il messaggio che sottendono.
Perché, a questo punto, la domanda viene spontanea: sono belle queste opere moderne? E, ancora: la missione dell’arte è quella di abbellire il mondo? No, dice Henri Lévy. “Perché significa avere una misera idea dell’arte se la si riduce a un’estetica. È un’idea tarda, da bassa epoca, decadente. È l’idea di coloro che non l’amano, o che ne diffidano, o che ne hanno paura, o che sognano di esiliarla nelle periferie della città…”.
Cosa resta dunque all’arte anche quando dovesse sfuggire al diktat del bello? Le resta l’intelligenza che dà un senso a quello che non ne ha. E, appunto, la curiosità. Quella che ci accompagna, passo passo, nel corso della visita alla collezione del MAP.
Guido Giampietro
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